
Mento pronunciato, naso aquilino, collo taurino. Giacomo non era un bell’uomo.
Lui stesso lo riconosceva e questa consapevolezza, unita alla timidezza e a un pizzico di goffaggine, l’aveva traghettato nei suoi anta ancora scapolo.
Quella mattina del 4 novembre il sole scaldava il prato e dava conforto ai convenuti alla cerimonia, tutti gli abitanti del paese, che volentieri si riunivano al centro del parco per spettegolare sull’ultima scappatella dell’assessore o commentare la mise della sindaca.
“Poverina, starà congelando con quel tailleur!” pensò Giacomo.
La sindaca pronunciava il discorso con pacatezza, fiera della carica che ricopriva, dritta in piedi senza alcun tentennamento, unica donna tra uomini, il vicesindaco a destra, l’assessore e il capo della polizia locale a sinistra.
Giacomo si trovava nel pubblico, non distante da lei, e reggeva il gonfalone del Comune. Li separava il lungo tavolo dove i camerieri della pasticceria del paese allestivano il banchetto del dopo cerimonia, nei pressi della statua del Milite Ignoto.
Orgoglio istituzionale nello sguardo di Giacomo, che da anni portava il gonfalone del Comune nelle cerimonie pubbliche, e oggi l’emozione di essere vicino alla sindaca, Italia Mainardi, un nome e un destino, della quale era innamorato. Segretamente. Anche lei single, dedita a tempo pieno al suo lavoro.
Bella, se n’era invaghito per il carattere deciso, diverso dal suo. Non aveva però alcuna speranza. Quale donna avrebbe mai trovato interessante uno come lui, impacciato messo comunale?
Ciò nonostante quella mattina era poco interessato alla cerimonia, non aveva occhi che per lei, con indosso quel vestito bianco, simbolo di purezza.
Tra la folla in pochi seguivano le parole in ricordo dei caduti della Grande Guerra. Pensavano piuttosto al dopo cerimonia, ai cabaret di pasticcini, alla torta alla crema e al famoso budino di lamponi della zona.

La sindaca Mainardi terminò il suo discorso con le parole “… nel nostro cuore e nella nostra memoria per sempre” e passò il microfono al vicesindaco. Giacomo era rimasto rapito da come lei aveva pronunciato la parola “cuore”.
Mentre lei consegnava il microfono un cameriere inciampò nel cavo dell’impianto, andò a gambe all’aria, finì sulla tavolata e la rovesciò sulle autorità presenti.
Solo il vicesindaco fu abbastanza rapido e si scansò con un balzo all’indietro: l’assessore fu investito da uno tsunami di crema pasticcera, il capo della polizia puntellato da una pioggia di bignè alla panna e la povera Italia, colpita al fianco dal budino, scivolò sull’erba.
Giacomo lasciò cadere il gonfalone, scattò in avanti e, tra le grida di sconcerto dei convenuti, raggiunse e superò il tavolo ribaltato.
La sua bella giaceva per terra in un miscuglio che sembrava un surreale quadro di Picasso della bandiera nazionale: il verde del prato, il bianco dell’abito e il rosso della poltiglia di quello che una volta era stato un budino di lamponi.
Si chinò e le offrì la mano, sussurrandole: “Permette che l’aiuti, signor sindaco?”.
La donna, singhiozzante, affranta per l’accaduto, ebbe un attimo di esitazione, poi gli strinse il braccio e si rialzò. Passò le mani sul tailleur rovinato, si asciugò gli occhi e gli rivolse un sorriso che per la prima volta non era per il pubblico ma tutto per Giacomo:
“Grazie! Ma ti prego, chiamami Italia!”.
[…] Pasticcio Tricolore […]